In Kenya, così come in diverse altre parti del mondo, gli ultimi decenni sono stati caratterizzati dall’utilizzo di un sistema di coltivazione a monocolture. Nel bacino del Nilo ad esempio, la coltivazione della canna da zucchero in grandi appezzamenti è una pratica oramai ampiamente diffusa. Questa coltura consente di creare lavoro per migliaia di kenioti lungo tutta la filiera agricola ed è sia fonte di guadagno che un popolare dolcificante.
Sebbene la coltivazione intensiva di questa pianta sembrasse portare vantaggi alle popolazioni locali, il passare del tempo ha mostrato in maniera evidente come gli svantaggi fossero maggiori dei profitti. Il suo impatto sulle scorte alimentari e sulla biodiversità è alto e il sempre maggiore uso di concimi industriali al fine di aumentare il rendimento delle coltivazioni ha portato ad un acceleramento della deforestazione.
La coltivazione industriale della canna da zucchero ha causato un drastico impoverimento del terreno, tale per cui piantando altre colture non si ottiene alcuna crescita e per cui sono scomparse le forme di vita comunemente presenti come lombrichi e formiche. Inoltre, la canna da zucchero è una pianta che necessita di grandi quantità di acqua, questo ha portato i contadini locali ad estrarne grandi quantità dai fiumi e da altri bacini, causando così una diminuzione del volume di acqua che raggiunge le pianure e prosciugando le aree umide, le fonti d’acqua superficiali e gli acquitrini.
Queste pratiche di agricoltura oltre ai danni alla fertilità stessa del terreno hanno minacciato l’esistenza di specie selvatiche già a rischio, come la tartaruga alata della Nubia (Cyclanorbis elegans). Il range di distribuzione di queste tartarughe si estendeva dall’Africa occidentale alll’Africa sub-sahariana e lungo tutto il bacino del Nilo in Sudan. La specie è scomparsa dalla maggior parte di questi territori e ad oggi è classificata come severamente minacciata (Critically Endangered) nella Red List della IUCN. Nel 2017 alcune popolazioni sono state riscoperte nel sud del Sudan, ma questi gruppi superstiti sono quotidianamente minacciati dalla perdita dell’habitat, in particolare dal diradamento delle aree umide che costituiscono il loro principale habitat naturale, e dalla distruzione dei siti di deposizione.
Albert Nkwasa, ricercatore ugandese, ha stabilito una connessione su due fronti tra la distruzione dell’habitat e le sue conseguenze letali sulle tartarughe. Il primo è l’inquinamento dall’uso agrochimico nel bacino del Nilo che raggiunge le aree umide: quando il sedimento ricco di fertilizzanti arriva in queste acque, può causare la crescita di piante invasive che soffocano le fonti di cibo da cui si nutrono le tartarughe. Il secondo è la deforestazione, che porta a periodi più secchi e all’aumento di sedimento che finisce nei bacini d’acqua, senza dimenticare inoltre che gli alberi e le foreste controllano il ciclo dell’acqua regolando la precipitazione, l’evaporazione e lo scorrimento dell’acqua, così come prevengono l’erosione del suolo.
Queste due minacce sono presenti simultaneamente nella maggior parte dell’Africa, minacciando la fauna selvatica che dipende strettamente dalle aree umide sia per il cibo che per la nidificazione. L’estensione delle aree umide naturali è diminuita del 35% dal 1970 per la conversione all’agricoltura. Riguardo l’inquinamento invece, l’alto uso di fertilizzanti aumenta la concentrazione di azoto e fosforo nel terreno e nelle acqua, causando l’eutrofizzazione di queste ultime, favorendo la crescita di specie invasive e tassi più alti di dilavamento dei nutrienti.
In Uganda, dove la Cyclanorbis elegans è stata scoperta solo nel 2021, entrambe queste minacce stanno spremendo via le aree umide ricche in diversità dalle specie che le abitano. L’erpetologo ugandese Mathias Behangana afferma che la siccità sta esaurendo le fonti di cibo per queste tartarughe, mentre secondo Kiyimba Mugagga, coordinatore nazionale della “Schools and Colleges Permaculture Programme” (SCOPE Uganda), l’assenza di zone umide, che agiscono come spugne d’acqua, porta ad inondazioni durante le forti piogge, che di conseguenza minacciano i siti di nidificazione delle tartarughe.
Per attenuare il colpo di queste minacce continuando a nutrire le persone, le comunità dell’Africa orientale stanno lavorando con esperti alimentari e ambientalisti per avviare diverse iniziative di agricoltura intelligente volte a ripristinare la biodiversità del bacino del Nilo. Il villaggio di Sitati in Kenya ha recentemente introdotto le foreste alimentari, una tecnica che cambia il modo in cui la comunità gestisce sia l’agricoltura che l’ambiente. Una sorta di agroforestazione che prevede la consociazione di una varietà di colture alimentari come cereali, frutta, verdura, tuberi ed erbe aromatiche tra alberi legnosi sullo stesso pezzo di terreno.
Lavorando con la Turtle Survival Alliance, col “Fish and Wildlife Service” degli Stati Uniti e con il Rainforest Trust, Behangana afferma che lo sforzo più promettente per conservare la tartaruga alata della Nubia sarebbe la creazione di aree protette comunitarie. Ma questo è un progetto a lungo termine che richiede finanziamenti, che al momento non ci sono. L’altra strada percorribile è l’istruzione: «La protezione locale della specie da parte delle comunità è il punto su cui abbiamo puntato le nostre campagne di sensibilizzazione. Sono felice che le persone si stiano impegnando per salvare la tartaruga perché possono utilizzarla per l’identità culturale, il turismo, l’istruzione e la ricerca», afferma l’erpetologo.
Credit foto in evidenza: ONG OeBenin via Wikimedia Commons (CC BY-NC)